D’ANGELO: IL SILENZIO DOPO IL SOUL

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“La stella più luminosa della nostra famiglia ha spento la sua luce in questa vita.”


Con queste parole piene di amore e dolore, la famiglia di Michael Eugene Archer, conosciuto da tutti come D’Angelo, ha annunciato la sua morte. Aveva 51 anni e stava lottando contro un cancro al pancreas. Un male che gli era stato diagnosticato poco più di un anno fa e che aveva costretto l’interprete a cancellare serate ed impegni. Ma certo nessuno si aspettava la sua scomparsa cosi all’improvviso. Anche perchè lui stesso, come pure parenti ed amici, non avevano fatto trapelare molti altri dettagli e non lo hanno fatto neppure adesso. Ma in questo caso forse non servono.

La voce del soul

Perché quando muore una voce come la sua, è il silenzio che parla. Insieme all’eredità della sua musica “straordinariamente commovente”, come è stata definita nel comunicato ufficiale inerente alla scomparsa di D’Angelo, “il dono delle canzoni che ha lasciato a questo mondo”.

D'angelo Michael Eugene Archer

Ma chi ha ascoltato davvero D’Angelo sa che la sua luce non si è spenta del tutto. Si è solo trasformata. Ora vive nei dischi, nelle cuffie, nei vinili consumati, nei battiti lenti del cuore quando parte una sua canzone.

La morte di D’Angelo ha voluto essere raccontata anche attraverso la voce dei suoi affezionati colleghi, con molti dei quali aveva anche collaborato. La cantante Beyonce ha scritto in proposito: “Eri il pioniere del neo-soul, e questo ha cambiato e trasformato per sempre il rhythm’n’blues. Non verrai mai dimenticato”. La scomparsa di D’Angelo ha colpito molto anche Lauryn Hill, che ha detto che “la sua bellezza e il suo talento non erano di questo mondo”. “Riposa in pace” ha postato Missy Elliot da parte sua mentre Tyler the Creator ha parlato del compianto D’Angelo e del suo “DNA musicale”. “Siamo stati cosí fortunati ad averlo e a poter godere della sua arte”. Tributi per D’Angelo anche da parte di Jill Scott, Jennifer Hudson, Doja Cat, Dj Premier…

Radice che sanguina: da Richmond al coro della chiesa

Michael Eugene Archer nacque l’11 febbraio 1974 a Richmond, Virginia, in una famiglia profondamente religiosa: suo padre era predicatore pentecostale.
Fu proprio nella chiesa che iniziò a conoscere il potere della voce, accompagnando inni e facendo esperienze musicali già da bambino, si racconta infatti che, a tre anni, suonasse il piano con naturalezza.

Quel ragazzo dalla voce ferita custodiva un desiderio profondo: non voleva ripetere ciò che era già stato fatto.
Amava quella musica come un antico fuoco dentro di sé, ma sapeva che doveva trasformarla, farla sua, desiderava donare al soul una nuova anima, più fragile e più intensa, più vera.

D’Angelo non cantava soltanto. Viveva ogni nota.
La sua voce era dolce e graffiata, piena di emozioni contrastanti. Poteva essere tenera come un sussurro e intensa come un urlo trattenuto. Pregava, amava, soffriva. Lo sentivi subito: quella voce veniva da un luogo profondo, non dalla gola, ma dall’anima.

La morte di D’Angelo rende ancora più chiaro quanto quella voce venisse da un mondo spirituale, capace di toccare chiunque l’ascoltasse.

D’angelo – Michael Eugene Archer

D'angelo Michael Eugene Archer
La morte di D’angelo – Michael Eugene Archer

D’angelo – Michael Eugene Archer
La rivoluzione gentile: Brown Sugar e l’alba del neo‑soul

Nel 1995 uscì Brown Sugar, il suo debutto: un amore a prima vista per la critica e un corpo vivo di groove per chi ascoltava. Conteneva canzoni come Lady, Brown Sugar, Cruisin brani che fondevano gospel, genio, con un tocco hip hop.

Il disco, oggi considerato una pietra miliare, mostrava già quella sensibilità rara che avrebbe definito tutto il suo stile: ritmi che sembrano camminare anziché correre, pause che respirano, silenzi che sanno parlare, bassi caldi come battiti di cuore.
Con Brown Sugar, D’Angelo non si limitava a rivisitare i maestri del soul: stava tracciando un nuovo sentiero, costruendo un ponte tra le radici del passato e la sensualità del presente.

Voodoo: l’alchimia del suono e del silenzio

Voodoo (2000) è considerato il capolavoro che consacrò D’Angelo come figura centrale del soul contemporaneo. Debuttò al primo posto nella classifica statunitense, e conteneva il brano che lo portò all’immaginario collettivo: Untitled (How Does It Feel)

Quel video lo trasformò involontariamente in un’icona di sensualità, un ruolo che poi gli pesò: la confusione tra arte e immagine fu una trappola da cui non riuscì sempre a uscire.

In questo disco la sua musica è “umana e imperfetta”, volutamente imperfetta, e proprio per questo potentissima.

Genio fragile

D’Angelo era un uomo complicato, come spesso capita ai veri artisti.
Dopo il successo esplosivo di Voodoo, sparì dalle scene. Troppo il peso della fama, troppa pressione, non si sentiva un sex symbol, si sentiva intrappolato in un’immagine che non gli apparteneva.

Scelse il silenzio. Un silenzio lungo quasi quindici anni. Ma anche quando non parlava, la sua voce continuava a vivere nei suoni degli altri. In artisti come Bilal, Frank Ocean, Kendrick Lamar. D’Angelo non era sparito davvero. Stava solo raccogliendo le forze.

Nel 2014, contro ogni aspettativa, D’Angelo tornò con un nuovo album: Black Messiah.
Non fu solo un ritorno, fu un evento. Un’opera intensa, politica, arrabbiata, potente. L’America stava attraversando un momento difficile: proteste, razzismo, ingiustizia. D’Angelo scelse di parlare, con la sua voce, con la sua arte. Era cambiato, e lo si sentiva, il suono era più ruvido, più terreno, ma ancora carico di spiritualità.

La morte di D’Angelo Michael Eugene Archer oggi sembra chiudere un cerchio, ma in realtà apre un’eredità nuova, viva, che continua a ispirare generazioni di artisti e ascoltatori.

D’angelo – Michael Eugene Archer

D’angelo – Michael Eugene Archer-I Soulquarians: fratelli e sorelle di suono

Era parte di una famiglia artistica che ha cambiato il volto della musica nera. I Soulquarians: con lui c’erano Erykah Badu, Questlove, Common, Mos Def, Lauryn Hill. Insieme formavano un laboratorio creativo in cui ogni suono era possibile.

Ogni brano poteva nascere da una jam improvvisata, da una conversazione sulla politica, da una riflessione spirituale.
Jazz, soul, hip hop, funk, afrobeat: tutto si mescelava senza regole, ma con un’intenzione precisa. Non era solo musica: era liberazione, era memoria viva, era un atto di resistenza culturale.

Per loro il groove non era solo ritmo, era un linguaggio segreto, un modo per restare fedeli alla propria identità in un mondo che chiedeva compromessi.
Era spiritualità, era coscienza nera, era amore per la verità.

D’Angelo, con la sua voce sacra e terrena insieme, era uno dei cuori pulsanti di quella rivoluzione. Una rivoluzione fatta non con le armi, ma con le note.

How does it feel?

D’Angelo ci ha lasciati con una domanda: How does it feel?

Come ci si sente, adesso?
Male. Perché il vuoto è reale. Ma anche pieno di riconoscenza. Di amore. Di quella bellezza rara che lui ha saputo regalarci.

La morte di D’Angelo ci ricorda che certe anime non scompaiono davvero: cambiano forma, diventano musica, diventano emozione.

Il mondo della musica piange la sua perdita, ma il messaggio è chiaro: non piangetelo, celebratelo.
Ascoltate la sua musica. Sentite il respiro dietro ogni nota. Trovatevi in quelle parole lente, nei bassi profondi, nelle pause cariche di significato. La sua voce non è sparita. È ancora lì.

Monia Degl’Innocenti

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