Steve Hackett a Roma: reportage di tre ore di pura magia tra Genesis e capolavori solisti
Steve Hackett a Roma: un evento memorabile. (di Francesco Gazzara)
Non è passato neanche un anno solare dall’ultima volta della Steve Hackett Band a Roma, il 31 ottobre 2024. Questa volta lo spettacolo si chiama “Genesis Greats – Lamb Highlights & Solo”. Anche il luogo è lo stesso, l’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone. Stavolta però il concerto non si svolge nella Sala Santa Cecilia ma nella suggestiva Cavea esterna, colma nel parterre e piuttosto densa nelle gallerie. Benchè non sia passato così tanto tempo il pubblico romano torna volentieri in massa ad ascoltare la magica chitarra di Steve.

Dalle origini agli anni Ottanta
In fondo la sua frenetica attività live ha prodotto molte visite nella città eterna, a partire dalle prime due leggendarie del 1980 e 1981. Erano i tempi dei suoi album solisti che battezzavano l’ingresso del prog rock negli anni Ottanta: DEFECTOR e CURED. La gente accorreva numerosa al Palaeur e ai piedi di Castel Sant’Angelo, in un’epoca ovviamente molto diversa.
Eppure Hackett, che il prossimo 12 febbraio compirà 76 anni, è ancora lì, al centro del palco. Capigliatura nera folta ormai tinta d’ordinanza, così come le trainer indossate ai piedi a manovrare la sua mitica pedaliera di effetti. La Fernandes Les Paul Gold gli rimane appesa al collo per quasi tre ore, spesso in piedi e a volte seduto.

L’inizio del concerto
Alle 21.00 in punto la band sale sul palco e dal parco tastiere dell’antico collaboratore Roger King – che a fine anno lascerà la band – parte la base di People Of The Smoke. Si tratta del primo di otto brani tratti dalla carriera solista di Steve, bilanciati tra cose nuove e vecchie. Tra le prime si alternano le recenti Circo Inferno, molto hard rock, These Passing Clouds, un po’ genesisiana, e The Devil’s Cathedral. Quest’ultima emerge possente con il sound di organo liturgico che King riproduce alle tastiere con enfasi quasi goblinesca. È anche l’unica di queste tracce recenti a non essere tratta dall’album THE CIRCUS AND THE NIGHTWHALE (2024) ma dal precedente SURRENDER OF SILENCE (2021).
Su questi brani il resto della band si mostra molto a suo agio, a partire da una sezione ritmica di altissimo livello: Jonas Reingold (basso) e Felix Lehrmann (batteria). Quest’ultimo è la prima novità rispetto all’ultima visita romana della band, quando ai tamburi c’era Craig Blundell, ora tornato sul palco con Steven Wilson. Peccato che la sua presenza venga ignorata dalla stampa nazionale, che in gran parte cita erroneamente Blundell come drummer presente.

La band e i classici della carriera solista
Alla voce c’è sempre Nad Sylvan, ormai molto più a suo agio col repertorio e non solo con quello dell’Hackett solista. Il fido Rob Townsend ai fiati, tastiere e bass pedals aggiunge infine il colore e gli inneschi necessari alla musica del maestro chitarrista inglese per deflagrare nella Cavea.
Il resto del repertorio solista eseguito prende il volo anche grazie alla riconoscibilità nei gusti del pubblico. La consolidata Every Day da SPECTRAL MORNINGS (1979) è seguita dalla potenza prog di A Tower Struck Down, dal primo album VOYAGE OF THE ACOLYTE (1975). Qui avremmo preferito una parte di bass pedals realmente suonata – se non con le mani come faceva Nick Beggs – e non messa in sequenza nelle basi. Purtroppo però è da tempo che la Steve Hackett Band fa ampio uso del click in cuffia e non devono sorprendere quindi anche le parti di backing vocals perfette che provengono dal computer.
L’anima umana della musica
La componente umana prende però il sopravvento già dall’assolo di basso di Reingold alla fine di A Tower Struck Down, con citazioni bachiane e funk che infiammano il pubblico. Anche Camino Royale, tratta da HIGHLY STRUNG (1983) ci riporta al lustro prog dell’epoca, mentre la chiusura dei primi 50 minuti “solisti” torna alle origini. Shadow Of The Hierophant, dal citato album di debutto di Hackett, viene eseguita nella sola parte strumentale.
L’assenza della cognata del chitarrista, Amanda Lehmann, a cui viene spesso affidata la parte vocale del brano, toglie una parte del fascino. Ma è indubbio che il crescendo finale della canzone, con i bass pedals della base doppiati da quelli realmente suonati, è un colpo fortissimo sia alla memoria che al cuore. Poche note ripetute ma profondissime, avvolgenti, in un sogno armonico che fa pensare sia al barocco di Albinoni sia a Mike Rutherford. In fondo il bassista dei Genesis è il co-autore del brano e la “casa madre” è dietro l’angolo, basta aspettare l’intervallo.

Il ritorno a The Lamb Lies Down On Broadway
La pausa non è corta, almeno venti minuti, ma è evidente che il settantacinquenne Steve, benchè appaia in piena forma con le sue svisate uniche, voglia dare il massimo nella seconda parte. Ed ecco che, avvolto da una luce blu, è di nuovo Roger King a introdurre l’esecuzione dei cosiddetti “Lamb Highlights”. La vorticosa apertura pianistica di The Lamb Lies Down On Broadway rispetta l’esecuzione leggendaria a mani incrociate di Tony Banks. Non sarà così nell’intro di Carpet Crawlers, in cui è evidente di nuovo la sovrapposizione con qualche sequenza registrata e l’arpeggio è eseguito senza incrocio di mani.
Il “Lamb Stew” proposto da Hackett è uno spezzatino già ascoltato nell’ultima visita italiana, con l’esecuzione della title-track seguita da Fly On A Windshield e Broadway Melody Of 1974. “L’ingresso dei faraoni sul Nilo”: così Steve ricorda la genesi dello stacco di questi ultimi due brani. E in effetti la potenza sonora è degna dell’originale, mentre lui stesso divaga non poco nell’esecuzione di frasi soliste ormai entrate nella storia. Dopodichè il chitarrista segue quello che comanda il cuore, in tutti i sensi.
Emozioni e contrasti nei “Lamb Highlights”
Al pathos estremo di Hairless Heart segue infatti la bellezza raffinata di Carpet Crawlers, con armonie corali non proprio ineccepibili rispetto a quelle di Gabriel e Collins. The Chamber Of 32 Doors suonata dal chitarrista che la scolpì nel 1974 è sicuramente una goduria, anche se l’impressione è che l’esecuzione tiri parecchio avanti. Non è la prima volta che si avverte un senso di velocizzazione di queste interpretazioni. Non è chiaro se ciò sia imputabile alla lunghezza dello show, quasi tre ore, o alla programmazione, qualora esistente anche qui, del click in cuffia. Tutto ciò comunque non inficia particolarmente sia Lilywhite Lilith che It, i brani più rock e tirati dell’ultima parte di THE LAMB LIES DOWN ON BROADWAY.
Rimane incastrata la stupenda The Lamia, in cui Nad Sylvan cerca di dare il massimo, malgrado la lontananza naturale da Peter Gabriel. Un certo distacco rimane anche dalla versione vocale di Nik Kershaw su GENESIS REVISITED II (2012) e sul successivo LIVE AT ROYAL ALBERT HALL (2014). Ad ogni modo il cantante si prepara alla notevole performance vocale del lungo brano successivo, mentre è Steve a interpretare con pathos fenomenale il celebre assolo finale del brano.

La magia di Supper’s Ready
L’applauso alla band dopo i nove brani tratti dal concept album dei Genesis è piuttosto lungo. Tutti sanno però che il concerto non è certo finito. Ecco quindi che il chitarrista cita FOXTROT e subito parte l’integrale di Supper’s Ready. La magica suite dei Genesis prende il posto di Dancing With The Moonlit Knight e The Cinema Show, eseguite nel tour precedente. Ottima tutta la prima parte acustica, anche se le 12 corde sono sostituite dalle chitarre elettriche e dalle tastiere di King che ne emulano almeno una. Il lungo brano scorre un po’ troppo veloce e la cesura tra le sezioni How Dare I Be So Beautiful? e la successiva Willow Farm appare davvero un lampo.
Il pathos creato dal silenzio prima dell’urlo “A Flower!” non sta lì per caso e qui viene sacrificato, forse in nome di una sequenza che scorre ineffabile in cuffia. Professionale e impressionante – come da volontà autoriale, leggi Tony Banks – è l’assolo di organo di King su Apocalypse in 9/8. Il batterista Felix Lehrmann esegue qui alcune variazioni che danno la cifra delle sue capacità tecniche e aggiungono un tocco di modernità all’esecuzione. L’assolo finale di Hackett sulla sezione di chiusura As Sure As Eggs Is Eggs è qualcosa che va scrutato e letto nel volto del pubblico. Tra sorrisi e pianti l’emozione è sempre la stessa da 53 anni.
I bis e il finale travolgente
Passate due ore e mezza il concerto volge alla conclusione e tutti si aspettano il bis di rito ovvero la solita esecuzione mista di Los Endos, inframezzata con Slogans, tratta da DEFECTOR (1980). Ma questo sarà il secondo bis, preceduto dall’immancabile Firth Of Fifth, sempre salutata da un boato alle prime note della celebre introduzione pianistica. L’aura british di SELLING ENGLAND BY THE POUND (1973) è restituita in gran parte dall’assolo hackettiano a metà brano. È invece la subito precedente melodia banksiana, originalmente affidata al flauto di Peter Gabriel, a risultare un po’ più spigolosa col sax soprano di Rob Townsend. Scelte di arrangiamento e in fondo suonare un classico variandone almeno un timbro è comunque un segno di originalità.
Dopo la rocambolesca Los Endos, con tanto di riapparizione vocale di Nad Sylvan sulla reprise di Squonk, il pubblico è già in piedi sotto palco a decretare un lungo applauso alla band. Affetto e divertimento, devozione e nostalgia. Dopo diversi minuti Steve e suoi rientrano nei camerini. Nel frattempo il sound della sua chitarra inconfondibile accompagna dalle casse del mega impianto il lento deflusso di qualche migliaio di sorrisi.
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