Era l’estate del ’99, vivevo a Bologna per l’università e come ogni estate che si rispetti, c’era un fermento particolare nell’aria. Si parlava di un evento epico, di un rave che prometteva di essere il più grande d’Italia, capace di attirare ragazzi e ragazze da tutta Europa. Le voci correvano veloci, come se fossero state trasportate dal vento, e io, ovviamente, non potevo perdere l’occasione di vivere un’avventura del genere.
Il Grande Countdown
Tutto iniziò con un messaggio criptico ricevuto su una chat IRC: “Ci siamo. Il rave dell’anno. Preparati. Coordinate seguiranno”. Il cuore mi saltò in gola. Da settimane giravano storie su questo evento, e ora, finalmente, avevo un piede dentro. Avevo sentito di ragazzi che venivano da Berlino, Londra, Parigi… Sembrava che l’intera scena rave europea si stesse preparando per questo unico, grande evento.
Passai i giorni successivi a prepararmi come se dovessi partire per una spedizione nell’Amazzonia: zaino carico di provviste (leggi: snack e acqua, tanta acqua), abbigliamento da battaglia (camicia di flanella per il freddo della notte e top coloratissimi per il caldo del giorno), e, ovviamente, un paio di scarpe comode pronte a ballare fino all’alba e oltre.
Il giorno dell’evento arrivò, e con lui, un piccolo indizio: ci avrebbero comunicato il luogo esatto solo poche ore prima, attraverso un numero di telefono segreto. Alla guida della mia auto, mi diressi al punto di raccolta, una stazione di servizio fuori Roma, che sembrava l’anticamera di una missione impossibile. Ragazzi di tutte le nazionalità si aggiravano attorno alle auto, scambiando sorrisi complici e occhiate emozionate. Sembrava di essere in un film, con un cast internazionale e una sceneggiatura fatta di adrenalina pura.
Finalmente, una voce robotica al telefono mi diede le coordinate finali. Il mio cuore batté all’impazzata: “Ci siamo”. La carovana di auto si mise in moto, dirigendosi verso una località sperduta tra le colline, il cui nome non aveva importanza. L’importante era ciò che ci attendeva.
Quando finalmente arrivai, la scena era surreale: un’enorme distesa di tende e camper si estendeva a perdita d’occhio, mentre i primi suoni della musica iniziavano a farsi strada nell’aria. Ma non erano suoni normali: erano bassi così potenti da far tremare il terreno sotto i piedi, un’ondata di decibel che colpiva direttamente al petto, facendoti vibrare fino al midollo. Gli organizzatori avevano creato un vero e proprio muro di casse: un colosso di altoparlanti impilati uno sull’altro, che si ergeva come una muraglia davanti alla folla. Non avevo mai sentito nulla di simile in vita mia. Era come essere investiti da un’onda sonora che ti attraversava e ti sollevava, portandoti lontano da ogni pensiero e preoccupazione.
I Mutoid: Architetti di un Mondo Futuristico
Ma la vera ciliegina sulla torta era la scenografia. Gli organizzatori avevano chiamato in causa i leggendari Mutoid Waste Company, un collettivo di artisti e performer che vive a Santarcangelo di Romagna. Questi artisti avevano trasformato il rave in un paesaggio post-apocalittico, un mondo abitato da cyborg e creature meccaniche che sembravano uscite da un incubo distopico. Sculture di metallo arrugginito e pezzi di macchinari abbandonati erano stati assemblati per creare figure gigantesche, metà umane e metà macchine, che si muovevano lentamente tra la folla, avvolte in fumo e luci strobo.
Il loro lavoro era una fusione perfetta di arte, ingegneria e fantasia. I Mutoid erano famosi per la loro capacità di trasformare rifiuti industriali in opere d’arte che sembravano vive, e quella notte, sotto le stelle, sembrava davvero di essere finiti in mondo post-atomico proprio come nel film Mad Max, un universo parallelo, dove tutto era possibile. Ogni angolo del rave era una scoperta: sculture di macchine fuse con pezzi di automobili, creature metalliche che si muovevano come esseri viventi, e persino veicoli trasformati in robot che vagavano tra la folla.
Durante la notte, tra un salto e l’altro, mi resi conto che la mia bottiglietta d’acqua si era magicamente svuotata (probabilmente per colpa della mia coreografia d’assolo particolarmente intensa). Mi incamminai verso una delle bancarelle improvvisate in cerca di acqua. La scena era quasi comica: una fila di ragazzi assonnati ma felici, tutti con lo stesso sguardo soddisfatto di chi sa di essere esattamente dove dovrebbe essere.
“Una notte così la raccontano nei libri,” disse un ragazzo accanto a me, mentre mi passava una bottiglietta. Scoppiai a ridere, e così fece lui. Non servivano altre parole. Eravamo tutti lì per lo stesso motivo: fuggire dalla monotonia, trovare un po’ di magia, e magari qualche storia da raccontare. Proprio come questa che vi sto raccontando dopo 25 anni.
L’Alba: Un Nuovo Giorno, Un Nuovo Beat
Man mano che la notte si trasformava in giorno, la musica non accennava a fermarsi. Anzi, sembrava prendere nuova vita con la luce dell’alba. Vedere il sole sorgere mentre centinaia di persone continuavano a ballare era un’esperienza quasi mistica. Non c’erano più confini tra giorno e notte, tra fatica e divertimento. C’era solo il ritmo, che continuava a pulsare come un battito cardiaco condiviso.
Mentre il sole iniziava a riscaldare il campo, mi trovai a sedermi su una piccola collina, con una vista che sembrava uscita da un sogno. Tende, persone che dormivano accanto ai loro nuovi amici, DJ che ancora suonavano come se il tempo non esistesse. Ero stanca, sporca, ma immensamente felice. Avevo vissuto un Teknival un evento di 10 giorni qualcosa di speciale, qualcosa che non avrei mai dimenticato.
Il ritorno a casa fu quasi surreale. Salutai alcuni nuovi amici con cui avevo condiviso quelle ore indimenticabili, promettendoci di ritrovarci al prossimo rave, ovunque e quando sarebbe stato. Tornando a casa, con la musica ancora nelle orecchie e il cuore pieno di ricordi, mi resi conto che il rave non era solo un evento. Era un’esperienza, una sensazione di libertà assoluta e di connessione umana che pochi altri momenti nella vita possono eguagliare.
Il rave era finito, ma il suo spirito viveva ancora dentro di me, e sapevo che lo avrebbe fatto per molto, molto tempo.
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